I miei primi otto anni di vita con l’emofilia A e le forme di terapie conosciute allora

Intanto sento sempre più spesso i miei conoscenti pronunciare la classica frase fatta “Una volta le cose andavano meglio”. Io faccio sicuramente parte di quelle persone che non sono dello stesso parere. Quando avevo nove mesi, i miei genitori iniziarono a notare ematomi grandi come una biglia su diverse mie parti del corpo (in particolare su braccia e gambe). Erano di un colore blu intenso e nel giro di alcuni giorni diventavano aree della grandezza di un pugno che cambiavano colore da verde a giallo.

Il fenomeno si ripresentava ogni due o tre settimane. Il nostro medico di famiglia diagnosticò molto velocemente, grazie a un esame del sangue, la malattia genetica che avevo, cioè l’emofilia A in forma grave; ciò significa l’assenza praticamente totale del fattore VIII della coagulazione.

Per i miei genitori e per il resto della famiglia fu uno shock enorme. Per loro questa diagnosi significava che in caso di ferite interne o esterne il mio sangue non si sarebbe coagulato come succede in qualunque altro organismo umano, bensì che ci sarebbe sempre stato il rischio che morissi dissanguato. Inoltre, ai miei venne spiegato che si trattava di una malattia genetica per cui non c’era nessun farmaco. Vollero anche sapere se nella famiglia di mia madre qualcuno avesse già avuto questa malattia, cosa che, di fatto, non risultava. Ciò mise così i medici davanti a un’incognita; all’epoca, infatti, non si sapeva ancora della possibilità di sviluppare una nuova mutazione.

Continue emorragie nelle articolazioni

All’età di due anni, senza nessun motivo apparente, cominciai ad avere emorragie nelle articolazioni, specialmente su entrambe le ginocchia, caviglie e gomiti. Successivamente negli anni, le emorragie continuavano a ripetersi ogni tre o quattro settimane. Il sanguinamento alle articolazioni scaturiva da piccole ferite nella zona della membrana sinoviale, ben vascolarizzata. Nel mio caso le emorragie erano di un tipo talmente forte che tutta la capsula articolare si riempiva di sangue. I sintomi erano sempre gli stessi: inizialmente sentivo tirare leggermente l’articolazione, poi cominciava a gonfiarsi tantissimo, diventava calda, la pelle si arrossava e infine ero completamente limitato nei movimenti e avevo forti dolori. In quel periodo i trattamenti erano esclusivamente di tipo conservativo e consistevano nel tenere a riposo l’articolazione, eventualmente steccarla e applicare del ghiaccio. Dopo tre giorni passava tutto, come se non fosse successo niente.
Fino ai sei anni venni trattato con forme di terapiaaggiuntive, come ad esempio la puntura evacuativa al ginocchio. In questa procedura si preleva il sangue presente nel ginocchio con un ago cavo. Tuttavia, questo metodo di trattamento non ebbe nessun esito visibile: le emorragie continuarono come sempre.

Una nuova speranza grazie alla prima generazione del fattore VIII della coagulazione

Durante i primi due anni di elementari, per via dei lunghi periodi di ricovero in ospedale, mancai da scuola per più della metà delle lezioni di ciascun semestre. Per non parlare delle lezioni di ginnastica, in cui il rischio di causarmi ferite era troppo elevato. Anche quando giocavo con i miei compagni di classe dovevo sempre trattenermi, il che era praticamente impossibile.

All’età di sette anni, in seguito a un’emorragia al ginocchio, per la prima volta venni sottoposto per la prima volta a una trasfusione di sangue e alla somministrazione di globulina A antiemofilica: era la prima generazione di farmaci a base di fattore VIII della coagulazione derivati da plasma umano. Nonostante ciò, la speranza di un miglioramento della qualità di vita grazie a questo tipo di trattamento andò presto a in frantumi. Dopo la terza trasfusione di sangue, mi ammalai gravemente di epatite B, una malattia infettiva del fegato causata dal virus dell’epatite B che mi costò quasi la vita.

Le infusioni danno speranza per il futuro

Nel 1971 venne in aiuto una nuova forma di trattamento: c’era la possibilità di creare un’infusione, preparato dal sangue ottenuto grazie a otto fino a dodici donazioni di cui veniva cristallizzato il plasma. In caso di sospetto di emorragie, nell’ospedale pediatrico venivano somministrate infusioni da 150 ml ciascuna. Per me ciò significava che potevo fare alcune attività fisiche, come nuovo, corsa leggera o camminate, con qualche preoccupazione in meno. Questo trattamento per mezzo di infusioni fu la prima vera conquista nel trattamento dell’emofilia che mi diede speranze per il futuro. Nel corso degli anni ne sarebbero seguiti molti altri; ma ve ne parlerò meglio nel prossimo racconto.

Saluti

Christian